Il 15 Marzo dalle ore 20:00, in collaborazione con l'Accademia "Non canto la salsiccia", la serata sarà dedicata ad un interessante argomento:  "Le lingue indoeuropee", a cura di Paolo De Paolis.

Di seguito riportiamo un abstract  sull'argomento.

Le lingue indoeuropee
Paolo De Paolis

Fino al sec. XVIII la linguistica europea, che pure aveva prodotto sin dall’antichità numerosi studi sulla lingua e sulla grammatica, si era poco occupata del problema del rapporto e della differenza o somiglianza fra le varie lingue, anche per il prevalere dell’idea della maggiore importanza di alcune rispetto alle altre, prima il greco nel mondo antico, poi il latino nel Medioevo e anche (in parte) nell’epoca moderna. 
A partire dal Rinascimento le lingue nazionali assunsero un ruolo sempre più definito e non subalterno, raggiungendo una piena autonomia nei secoli XVII e XVIII e iniziando così a suscitare i primi interessi per la comparazione linguistica.
Ma il fatto che cambiò radicalmente gli studi di linguistica fu la scoperta del sanscrito a seguito della colonizzazione inglese dell’India e la conseguente individuazione di un numero molto significativo di coincidenze lessicali con lingue come il greco, il latino, le lingue celtiche e germaniche. A partire da questa acquisizione, si sviluppò il metodo della comparazione linguistica, soprattutto con gli studi di Friedrich Schlegel e Franz Bopp a inizio Ottocento, che portò alla ricostruzione dell’intera famiglia linguistica indoeuropea, costituita da:
  • tre gruppi con attestazioni risalenti al II millennio a.C.: anatolico, indoiranico, greco;
  • due gruppi con attestazioni risalenti al I millennio a.C. (lingue italiche e celtiche);
  • cinque gruppi attestati solo a partire dall’epoca cristiana (germanico, armeno, baltoslavo, tocario, albanese).
L’appartenenza di tutte queste lingue ad un medesimo ceppo linguistico comportava la conseguenza di presupporre una antica comunità di parlanti, indicati come protoindoeuropei, che parlavano una lingua, il protoeuropeo (non attestata in alcuna forma), da cui sarebbero discese i vari rami storicamente attestati, con lo stesso meccanismo verificatosi, ad esempio, per la discendenza dal latino delle lingue romanze.
Gli studi seguenti cercarono così di ricostruire in primo luogo il protoindoeuropeo, esclusivamente sulla base dei suoi esiti (fonetici, morfologici e lessicali) nelle lingue storiche che da esso discendono. Allo stesso tempo si cercò, avvalendosi soprattutto delle ricerche di archeologia preistorica, di ricostruire il popolo che aveva parlato questa lingua, i protoindoeuropei, con riferimento soprattutto alla sua possibile zona di origine e tentando di individuare le sue caratteristiche culturali, sociali, economiche e religiose. Il metodo prevalentemente usato fu quello lessicalistico (o della archeologia linguistica), che consisteva nel trarre conclusioni dai termini che, attraverso la comparazione linguistici, risultavano appartenere al patrimonio linguistico primitivo (metodo peraltro molto insicuro e pericoloso). Solo successivamente si sono introdotti anche i dati più propriamente archeologici, anche se l’incrocio fra le due scienze è sempre stato problematico e ha portato frequentemente a risultati radicalmente diversi. 
Dopo una prima fase in cui i protoindoeuropei furono localizzati in varie aree asiatiche, sulla base dell’erronea opinione che il sanscrito fosse la più antica attestazione di lingua indoeuropea (o che addirittura fosse la lingua protoindoeuropea) e dell’idea romantica che l’Oriente fosse la culla spirituale dell’umanità, si cercò invece di localizzarli in Europa, con oscillazioni fra la pianura pannonico-danubiana e il Nord Europa, Germania o Scandinavia; questi ultimi studi crearono anche lo stereotipo idealizzato dei protoindoeuropei come popolo puro, nobile e bellicoso, dotato di caratteristiche antropologiche e fisiche specifiche e, grazie anche all’ipotesi della localizzazione
in Germania della sede originaria protoindoeuropea, gettarono le basi per l’uso distorto e nefasto che ne fu fatto negli anni ’30 del XX secolo, con la declinazione di questa teoria in termini razziali di superiorità degli indoeuropei sulle altre popolazioni e di specifica superiorità della nazione germanica che ne avrebbe mantenuto le caratteristiche più pure e incontaminate.
Fra le tante teorie che sono state successivamente proposte, quella che ha ottenuto il maggior successo nella seconda metà del XX secolo e che è stata elaborata dagli studi di V. Gordon e M. Gimbutas, colloca i protoindoeuropei nelle steppe della Russia asiatica e ne postula una espansione verso sud e soprattutto verso ovest con successive ondate migratorie, a partire dal V millennio a.C. Queste ondate migratorie, composte da popolazioni seminomadi dedite prevalentemente alla pastorizia, si sarebbero sovrapposte in Europa alle popolazioni locali preindoeuropee, mutuando da essi l’agricoltura e una parte delle credenze e dei riti religiosi, ma imponendo la propria lingua, la propria organizzazione sociale e il proprio pantheon religioso.
A partire dagli anni ’80 si è contrapposto a questo un altro modello, elaborato soprattutto dall’archeologo C. Renfrew, che rovescia completamente la teoria tradizionale:
i protoindoeuropei sarebbero una popolazione contadina, che abitava nell’Anatolia (odierna Turchia, la zona da cui provengono le più antiche testimonianze di una lingua indoeuropea, quella ittita), da cui si sarebbe irradiata, a partire dal VII millennio a.C., per lenta diffusione la tecnica agricola, che sarebbe stata così progressivamente acquisita dalle popolazioni europee dedite ancora alla caccia, alla raccolta e alla pastorizia, insieme alla loro lingua che sarebbe stata così acquisita dai preindoeuropei senza particolari eventi traumatici. Questa teoria è però fortemente
combattuta dai linguisti che obiettano il fatto che la terminologia agricola sembra molto povera nel protoindoeuropeo, mentre molto più ricco appare il lessico dedicato alla flora e alla fauna. Da ultimo ulteriori elementi di discussione sono stati apportati sullo scorcio del secolo scorso dalla ricerche genetiche di Cavalli-Sforza, Menozzi e Piazza, che hanno evidenziato, fra le componenti genetiche principali delle popolazioni europee, una componente di derivazione mediorientale e una di derivazione dalla Russia asiatica, fornendo così un elemento che può essere utilizzato a favore sia dell’una che dell’altra teoria.

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