Molti di noi si dichiarano ambientalisti, ma un progressista non può negare un certo fastidio davanti alla mancanza di scientificità e all’affermarsi di visioni catastrofiche da fine del mondo che caratterizzano alcuni movimenti ambientalisti. Da progressisti non possiamo che rabbrividire davanti a proposte come la “decrescita felice”! Il problema ambientale non può essere risolto creando allarmismi ansiogeni ma solo rimanendo razionali e flessibili davanti a questioni di così ampia portata.
È proprio questa razionalità che dovrebbe aiutarci a rimanere cauti anche davanti a quei profeti dell’ambientalismo sostenitori del “Great Reset” così come è stato presentato al World Economic Forum di Davos. L’idea dei profeti dell’ambientalismo, sostenitori del Great Reset è molto semplice: i miliardari riuniti a Davos intendono sfruttare i problemi economici derivanti dalla pandemia per imporre un cambio di rotta all’economia globale in senso “green”, mettendo le mani sui miliardi di sussidi pubblici e sgravi fiscali dando in cambio una pennellata di verde alle loro attività. È proprio da queste pennellate di verde che dovremmo difenderci evitando di abusare della parola “sostenibile” che sfugge a una definizione chiara e non rende possibile dividere nettamente le attività che hanno un impatto ambientale negativo e quali uno positivo.
Il rischio dunque è spendere miliardi che non incideranno veramente sul problema ambientale, ma si riveleranno solo uno spreco di risorse pubbliche finalizzato a nutrire le imprese più vicine al mondo politico e ai governanti di turno. Oltre a questi rischi c’è qualcosa di più profondo che nella retorica ambientalista più diffusa non va. Sfocato sullo sfondo si nota spesso un certo disprezzo verso i Paesi in via di sviluppo, negando loro qualsiasi sostegno economico. Paesi che non hanno "diritto" a fare figli, a inquinare i fiumi, l’aria e il mare per svilupparsi. Noi occidentali lo abbiamo fatto ma a loro non è consentito; anche se per ora le tecnologie “a basso costo” sono le uniche che quei Paesi possano permettersi, e sono quelle non ecosostenibili. Questo “eco-colonialismo” viene spesso condito con un pizzico di misantropia che vede la presenza umana sulla terra (sempre la presenza altrui e mai di chi sostiene queste tesi) come una dannazione e auspicabilmente diminuibile tramite il controllo delle nascite o altre pratiche che ricordano l’eugenetica nazista. Questa specie di “ecofascismo”, come è stato definito, è forse il più terribile delle derive di “destra” dell’ambientalismo perché non si fa vedere ma rimane sotteso in molti discorsi in superficie politicamente corretti.
Ma allora la fatidica domanda che si pose Lenin: Che fare?
L’Antropocene, cioè l’era geologica attuale in cui l’ambiente terrestre è fortemente condizionato dagli effetti dell’azione umana, viene visto solo nei suoi aspetti negativi, ma è stata l’epoca in cui l’uomo grazie alla scienza e alle tecnologie è stato in grado di far uscire miliardi di individui da quella condizione di povertà che ha contraddistinto la vita dei nostri antenati e purtroppo ancora contraddistingue la vita di 3,5 miliardi di individui. Fermare questo processo di crescita economica significa relegare 3,5 miliardi di persone a rimanere poveri e davanti a questo non possiamo che opporci radicalmente.
Non dobbiamo cambiare modello di sviluppo perché è questo il modello che con il continuo sviluppo di tecnologie avanzate ci ha permesso di arrivare fin qui e ci permetterà di risolvere anche questa crisi ambientale. Questo non vuol dire che dobbiamo avere fede assoluta nella tecnologia, è noto che ogni tecnologia porta con sé nuovi rischi, ma anche enormi opportunità di cui non possiamo fare a meno.
La storia dell’essere umano è un susseguirsi continuo di tecnologie da millenni ma negli ultimi due secoli il processo si è accelerato e ancora abbiamo margini per spingere di più l’acceleratore. Per questo anche nella lotta al cambiamento climatico abbiamo urgente bisogno di nuove tecnologie e soprattutto di norme giuridiche e misure tecnologiche di sicurezza in grado di indirizzarle verso la sostenibilità ambientale e l’efficientamento energetico necessari.
Lasciar sviluppare liberamente le nuove tecnologie per poi imporre limitazioni al loro uso e rimedi ai loro eventuali rischi sembra essere l’unica via. Oltre a questo dobbiamo sempre tenere a mente il ruolo svolto dalle tecnologie dell’informazione e della comunicazione (ICT). Ad oggi queste tecnologie, di cui Facebook, Instagram ecc. sono solo una piccola parte, hanno emesso più CO2 che l’Olanda ma in compenso, se non le avessimo usate, le emissioni sarebbero state cinque volte maggiori.
Un mondo che comunica meglio e più velocemente è un mondo che inquina di meno.
Un mondo più tecnologico è più controllabile e più efficiente, con meno sprechi di energia e risorse. Un mondo che riesce a fare di più con meno, di più con gli scarti e di più con cose diverse.
Ma la domanda è: saranno le tecnologie future in grado di risolvere il problema? La verità è che quello che ci stiamo prendendo deve essere un rischio calcolato perché solo se il progresso tecnologico continuerà a progredire a un ritmo sostenuto noi saremo in grado di evitare danni ambientali irreversibili.
Questa è una sfida, forse la più grande che l’umanità ha mai affrontato e proprio per questo non saranno i facili populismi, le frasi fatte o le dichiarazioni di buoni intenti a risolvere il problema, ma solo un’informatica ecologica e un ambientalismo digitale.
Federico Cupellini

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